Con questa nuova tranche di episodi, la serie potrebbe aver fatto il passo più lungo della gamba, rinunciando in parte all’unico elemento che non aveva mai abbandonato.
Che cos’è Black Mirror? Fino alla seconda stagione (“White Christmas” incluso) rispondere a questa domanda non era difficile. Bastava parlare di una serie antologica inglese incentrata sull’uso distorto della tecnologia per dipingere un quadro chiarissimo e veritiero. A voler essere più precisi, ci si poteva soffermare anche sul cinismo e la cattiveria presenti in ogni episodio, veri e propri marchi di fabbrica della creatura di Charlie Brooker, sceneggiatore e produttore televisivo britannico.
L’identità della serie ha iniziato a cambiare un po’ in seguito all’approdo su Netflix, avvenuto in concomitanza dell’uscita della terza stagione (2016). Le ambientazioni inglesi, spesso cupe, hanno in parte ceduto il posto alle classiche metropoli statunitensi, il cast si è arricchito di volti famosi e il lieto fine, un tempo impensabile, ha fatto la sua entrata in scena.
Pur proponendo comunque episodi in linea con lo stile classico della serie (“Shut up and dance”, giusto per citare uno dei più celebri), la terza stagione ha mostrato agli appassionati un Black Mirror un po’ più morbido, non più in vena di distribuire pugni allo stomaco con la stessa frequenza di prima. Eppure, nonostante questa rinuncia a uno dei suoi elementi cardine, la serie è comunque rimasta fedele alla sua premessa: far riflettere sui possibili sviluppi della tecnologia, concentrandosi soprattutto sulle insidie celate nel suo legame sempre più stretto con la società moderna.
Episodi come “Hated in the nation” e “Nosedive” hanno centrato in pieno quest’obiettivo, prendendo in esame fenomeni come le valutazioni espresse in stelline (destinate ai prodotti, ma anche agli esseri umani, almeno in alcune parti del mondo) e l’odio online, che nel corso degli ultimi anni ha raggiunto livelli inimmaginabili. San Junipero, invece, ha proposto una riflessione su una tecnologia ancora lontana e con implicazioni tanto affascinanti quanto terribili. Il trend è proseguito con la quarta stagione, che ha esplorato temi come le app di dating, i cani robot (già realtà grazie a società come Boston Dynamics e Xiaomi) e il controllo che i genitori possono esercitare sui figli grazie alla tecnologia.
Se dal punto di vista tematico la continuità è stata garantita, questa nuova tranche di episodi è apparsa più sperimentale, complice anche la scelta di realizzare una delle puntate, “Metalhead”, interamente in bianco e nero. Questa voglia di osare ha portato nel 2018 all’arrivo su Netflix di Bandersnatch, una puntata interattiva di Black Mirror che ha permesso agli spettatori di fare delle scelte e di ottenere dei finali diversi. Anche in questo caso il legame con l’idea di base, il patto stipulato tra la serie e gli spettatori, è stato rispettato.
La quinta stagione è considerata da vari fan come una delle più deboli di Black Mirror, soprattutto a causa della debolezza delle trame proposte. Al netto di un episodio capace di proporre una riflessione potente sulla dipendenza dai social media, (Smithereens”), gli altri due hanno faticato a fare breccia nel cuore degli appassionati. “Striking Vipers”, pur partendo da un’idea interessante, non è riuscito a svilupparla in modo convincente e “Rachel, Jack and Ashley Too” si è discostato troppo dalle atmosfere tipiche di Black Mirror, andando ad abbracciare un filone cinematografico con il quale la cinica serie di Charlie Brooker ha poco a che spartire.
L’ultima stagione disponibile, la sesta, è approdata su Netflix giovedì 15 giugno, proponendo agli spettatori cinque episodi nuovi di zecca, tutti molto diversi l’uno dall’altro, soprattutto a livello di atmosfere e tematiche.
Di per sé questo non sarebbe un male, ma due puntate hanno rotto il patto narrativo che Black Mirror aveva stretto con lo spettatore fin dall’inizio, rendendo più netta che mai quella sensazione di “crisi d’identità” che alcuni fan avevano iniziato a notare fin dai tempi della terza stagione. Perché un conto è scendere a patti con delle storie meno ciniche e un altro è farlo con trame che abbracciano appieno un elemento con cui la serie non ha mai avuto a che fare: il sovrannaturale.
Sono due gli episodi che si addentrano in questo territorio inesplorato, ma non diremo quali per evitare spoiler. Uno di essi ha la decenza di avvisare lo spettatore che quel che andrà a vedere avrà poco a che fare con il Black Mirror a cui è abituato (si parla, infatti, di “Red Mirror”), mentre l’altro finge di essere una normale puntata della serie per oltre metà della sua durata. Come già detto, la serie non è nuova agli esperimenti, ma questo cambio di tematiche non può che essere percepito come un tradimento nei confronti di chi segue la serie fin dai suoi albori.
I due episodi intrattengono e uno spettatore occasionale potrebbe non notare alcun problema durante la loro visione, ma non dovrebbero far parte di Black Mirror. Inserirli in un’antologia horror con un nome diverso (magari proprio Red Mirror) avrebbe avuto molto più senso. Forse un’eventuale accoglienza positiva da parte del pubblico generalista potrebbe portare a una soluzione simile in futuro, ma esiste anche la possibilità che ormai Black Mirror sia diventato un contenitore nel quale inserire storie di ogni tipo, a prescindere dal loro legame con la tecnologia. E di fronte a questa prospettiva i fan di vecchia data non possono fare altro che storcere il naso.
Escludendo un attimo la parte sovrannaturale della stagione, il resto funziona e anche bene. Certo, la natura dichiaratamente comedy e sopra le righe di uno degli episodi potrebbe non incontrare i gusti di tutti, però è innegabile che la tecnologia al centro della trama e le sue implicazioni siano sinistre e vicine a quel che Black Mirror è sempre stato. Per trovare lo spirito originale della serie, quello delle prime due stagioni, bisogna però rivolgersi all’episodio più british del pacchetto, ambientato in Scozia e incentrato sulla recente moda dei documentari su serial killer e altri criminali controversi.
Qui la riflessione sulla tecnologia si unisce alla cattiveria tipica degli albori e i pugni allo stomaco sono più violenti che mai. Anche l’episodio che ha tra i suoi protagonisti Aaron Paul (Jesse Pinkman in Breaking Bad) non ci va piano, ma è in parte rovinato da alcune falle logiche nella sua trama. La tecnologia proposta sa un po’ di già visto, però il contesto nel quale è applicata è piuttosto lontano da quanto visto finora nella serie e permette di dare vita a delle dinamiche interessanti.
Nel complesso, questa sesta stagione di Black Mirror è l’emblema della crisi d’identità della serie, che se da un lato non vuole rinunciare al suo passato, dall’altro avrebbe anche voglia di staccarsene del tutto, venendo anche meno al tacito patto stipulato con gli spettatori nell’ormai lontano 2011. Gli episodi intrattengono bene e alcuni sono davvero ispirati, però la sensazione che qualcosa di importante si sia rotto è impossibile da scacciare. Forse dopo tanti anni Charlie Brooker si è stancato di affrontare sempre le stesse tematiche e avrebbe voglia di esplorare nuovi orizzonti, ma farlo all’interno di un contenitore che ha sempre seguito delle regole ben precise non sembra la mossa migliore, né per il bene di Black Mirror né per quello delle storie sovrannaturali, che meriterebbero uno spazio adeguato, nel quale l’assenza di centralità della tecnologia non verrebbe contestata da nessuno.
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