Dall’approvvigionamento delle materie prime alle shopping, tutta la filiera subisce gli effetti del clima impazzito
Il clima impazzito, complice il riscaldamento globale, non risparmia nessuno. Neanche l’industria della moda. Tutta la filiera, dall’approvvigionamento delle materie prime alla vendita nei negozi, risente degli effetti del cambiamento climatico.
In una specie di cortocircuito, o di cane che si morde la coda, uno dei comparti che più concorre alle emissioni di gas serra a livello globale è anche tra i primi a fare le spese della crisi climatica. Secondo le Nazioni Unite infatti quella tessile è una delle industrie manifatturiere più inquinanti del Pianeta perché produce dall’8% al 10% di tutte le emissioni globali, pari a 4-5 miliardi di tonnellate di CO2 immesse in atmosfera ogni anno.
L’approvvigionamento delle materie prime
Le condizioni meteorologiche estreme stanno avendo un impatto a livello globale sull’intera catena di approvvigionamento. Emblematico il caso del cotone. I principali produttori mondiali hanno risentito della crisi climatica. Il Pakistan, per esempio, ha visto quasi dimezzata la resa annuale per via delle inondazioni portate dalle piogge monsoniche che hanno colpito il Paese lo scorso anno. A causa di precipitazioni anomale e parassiti l’India, il maggior produttore al mondo, ha dovuto ricorrere alle importazioni dall’estero. Al contrario negli Stati Uniti, il primo esportatore globale, il raccolto si è ridotto di un terzo a causa della prolungata siccità. L’assenza di piogge non ha risparmiato neanche le piantagioni in Brasile.
A soffrire delle anomalie del clima, come la siccità e le inondazioni, sono anche le fibre di origine animale, in testa la lana, la seta e la pelle bovina e di vitello.
Le collezioni
Malgrado le stagioni continuino a scandire il calendario della moda, modelli meteorologici ormai imprevedibili costringono anche gli stilisti a ripensare le proprie collezioni. Gli inverni sempre più miti a cui l’Europa, e in particolare la regione del Mediterraneo, si sta abituando, per esempio, potrebbe rendere obsoleti capi d’abbigliamento molto caldi e pesanti. È ragionevole prevedere che a farsi largo sul mercato saranno progressivamente i tessuti più leggeri e traspiranti.
In prospettiva il clima imprevedibile potrebbe segnare anche il declino della cosiddetta “fast fashion” e dunque di un modello produttivo basato sul ricambio continuo, in favore di linee d’abbigliamento più versatili e, è il caso di dire, per tutte le stagioni, a tutto vantaggio dell’ambiente.
In parallelo sulle passerelle si sta imponendo man mano il concetto di sostenibilità per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. Così le case di moda fanno sempre più ricorso a materiali riciclati e tessuti rigenerati per dare una seconda vita agli indumenti altrimenti destinati alla discarica.
Lo shopping
Se non ci sono più le stagioni di una volta, per i commercianti prevedere i comportamenti di acquisto diventa un rompicapo. Anche la questione saldi si fa intricata. Perfino in Paesi come l’Italia e la Francia, dove il periodo dei ribassi è regolamentato. “Allungare” i saldi, cioè posticiparne l’inizio, come propongono molti esercenti nostrani, potrebbe essere una soluzione.
Di certo gli sbalzi di temperatura incidono sulle vendite e dunque sui ricavi. Secondo lo studio “Weather the Shop”, ogni grado in più sulla colonnina di mercurio può costare circa 13 milioni di euro solo nel settore dell’abbigliamento femminile.