Pensi che un medicinale non sortisca l’effetto desiderato, ma anzi ti fa stare male? Potrebbe essere solo causa dell’effetto nocebo!
Tutti siamo abituati a sentire parlare di effetto placebo quando ci riferiamo a rimedi miracolosi, sebbene non abbiano particolare attendibilità scientifica. Il più delle volte non possiamo non chiederci: si tratta di una reale efficacia o voglio solo pensare che abbia sortito l’effetto desiderato? In poche parole, se si crede fermamente che la soluzione adottata funzioni, allora, in qualche modo, così sarà. Quello che forse in pochi sanno è che l’effetto placebo ha anche un “contro altare”, una variante diametralmente opposta: l’effetto nocebo.
Per effetto nocebo si intende quando un soggetto manifesta una risposta negativa in seguito ad aspettative o convinzioni negative riguardo a un trattamento, anche se quest’ultimo potrebbe essere in realtà neutro o inefficace. Per esempio, se una persona è convinta che un farmaco possa provocargli malessere, è probabile che sperimenti questa sensazione anche se il farmaco in sé non è la causa.
Purtroppo, anche se può sembrare banale, l’effetto nocebo rischia di rappresentare una sfida significativa in campo medico. Infatti, simili preconcetti riguardo cure o dispostivi medici inducono i pazienti a evitare i farmaci prescritti, abbandonare i trattamenti o manifestare effetti collaterali, che tuttavia non sono effettivamente reali. Questo dimostra quanto la mente abbia una forte influenza sulla percezione del benessere e sulla risposta ai trattamenti. Ma scopriamo nei dettagli le dinamiche dell’effetto nocebo.
Come anticipato, l’effetto nocebo è l’opposto dell’effetto placebo. Il termine, che deriva dal verbo latino “nuocere”, indica una condizione che si verifica quando un individuo, aspettandosi giù un risultato negativo da un trattamento, genera involontariamente una risposta dannosa o indesiderata a tale farmaco.
Nello specifico, l’effetto nocebo può comportare che i pazienti siano più inclini a sperimentare effetti indesiderati se ne sono già preoccupati in merito. Tali controindicazioni negative possono essere percepite fisicamente e spesso si manifestano clinicamente. Per esempio, pazienti che assumono un placebo – per sua natura innocuo – durante uno studio clinico possono sperimentare gravi effetti avversi, qualora abbiano timore di particolari effetti indesiderati.
Alcuni esperti ritengono che l’effetto nocebo possa avere un impatto maggiore rispetto all’effetto placebo in termini di esiti clinici, dal momento che, notoriamente, le percezioni negative si formano più rapidamente di quelle positive, soprattutto se alimentate da una “tempesta mediatica”. Non a caso, quando i media diffondono preoccupazioni e reticenze generali riguardo a un farmaco, le segnalazioni in merito a presunte controindicazioni aumentano, quasi a volere confermare la diffidenza generale.
Anche nel caso dei farmaci generici, l’effetto nocebo svolge un ruolo non di poco conto. Il passaggio da un farmaco di marca a uno generico può indurre alcuni soggetti a sperimentare effetti collaterali a causa dello scetticismo preesistente verso i generici. In questo caso, a fare leva sull’effetto nocebo risulta essere la percezione del costo, con la convinzione che i generici siano meno efficaci perché sono più economici.
Nell’analisi dell’effetto nocebo, è stato riscontrato come alcuni soggetti sembrano essere più inclini a sperimentare tale reazione. Le donne, i pazienti affetti da ansia e depressione, coloro con una prospettiva pessimistica e quelli particolarmente influenzabili potrebbero richiedere un approccio più attento per evitare l’attivazione involontaria dell’effetto nocebo.
Ma non si tratta solo di conseguenza “mediatica”: è fondamentale considerare che anche la comunicazione non verbale può attivare involontariamente una risposta nocebo.
Pertanto, da un punto di vista medico, la mitigazione del rischio di nocebo può avvenire garantendo un equilibrio adeguato nell’illustrare gli effetti positivi e negativi di un trattamento e assicurandosi che il paziente comprenda la ragione scientifica dietro il farmaco da assumere o sulla terapia da seguire. In primo luogo, può risultare vincente che il medico menzioni le eventuali controindicazioni di un farmaco senza allarmismi, al fine di diminuire il ruolo del nocebo. La riduzione dell’effetto nocebo può altresì avvenire fornendo ai pazienti informazioni sugli effetti collaterali di un farmaco in un contesto più ampio e assicurandosi della loro comprensione.
Abbiamo introdotto l’effetto nocebo in quanto esatto opposto dell’effetto placebo. Al pari del primo, anche quest’ultima condizione deriva dal verbo latino “piacere”, riferendosi a un farmaco o a un trattamento privi di effetti specifici per la condizione trattata, ma che vengono deliberatamente utilizzati come se avessero reali proprietà curative o farmacologiche. Infatti, nonostante non ci sia una reale correlazione con il farmaco assunto, lo stato di salute del paziente che ha accesso a tale trattamento può migliorare, a condizione che il paziente riponga fiducia in tale sostanza o terapia.
Secondo alcuni esperti, il placebo è considerato l’agente terapeutico più potente, dal momento che rappresenta un’entità apparentemente inerte dal punto di vista chimico e biologico, ma che agisce in modo significativo a livello psicologico. Al contrario, l’effetto nocebo si comporta come un “avversario” in grado di generare una malattia iatrogena. Infatti, mentre l’effetto placebo induce una risposta positiva, l’effetto nocebo provoca una serie di reazioni psicologiche negative che emergono dopo l’assunzione di un farmaco inerte.
Queste reazioni indesiderate non sono generate chimicamente, ma piuttosto sono il risultato di uno stato emotivo che suscita sensazioni come insicurezza, patofobia e angoscia. In pratica, l’effetto nocebo evidenzia come le aspettative e le emozioni possano influenzare la percezione dei sintomi e la risposta ai trattamenti, anche in assenza di effetti fisici reali.
D’altro canto, gli impatti positivi dell’effetto placebo sono stati evidenziati in diversi studi che combinano la suggestione verbale e il condizionamento fisico, ad esempio attraverso l’applicazione di creme, in pazienti affetti da sindrome dell’intestino irritabile, artrosi del ginocchio, dolori muscoloscheletrici, lombalgia cronica e dermatite atopica).
Nel contesto del dolore cronico, tale condizionamento in positivo rappresenta un elemento cruciale. È stato ampiamente ribadito e documentato quanto l’uso di una comunicazione empatica durante la somministrazione di un farmaco analgesico, considerando le aspettative del paziente e il contesto, risulti significativamente più efficace rispetto a una somministrazione neutra dello stesso farmaco.
Pertanto, la componente psicologica assume un ruolo fondamentale nel trattamento del dolore cronico: l’impiego intenzionale dell’effetto placebo può notevolmente potenziare l’efficacia dell’assistenza sanitaria, diventando il mezzo attraverso cui la relazione medico-paziente si trasforma in un’opportunità terapeutica.
Data l’importante rilevanza che la percezione di un farmaco ha sulla cura dei pazienti, è cruciale acquisire consapevolezza riguardo al ruolo dell’effetto placebo e dell’effetto nocebo. Infatti, una maggiore comprensione di tali meccanismi può ottimizzare i risultati delle terapie attive, con impatti positivi sulla condizione dei pazienti e sulla loro qualità di vita.
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